Di seguito il mio contributo sul quotidiano Il secolo XIX nell’ottantesimo anniversario della strage della Benedicta.
Ottant’anni fa, in queste stesse ore, si compiva il più grande massacro di partigiani della storia nazionale. Lo riscrivo: il più grande massacro di partigiani della storia nazionale. Perché allora questa ricorrenza tonda, e quindi inevitabilmente simbolica, non figura, non dico tra le feste nazionali, ma almeno sotto il riflettore delle principali testate giornalistiche o in qualche modo nell’agenda cerimoniale di istituzioni che non siano state direttamente interessate dalla strage?
I fatti. Nella settimana santa del 1944 centinaia di giovani vivono nascosti nei pressi del monte Tobbio, alle spalle di Genova. C’è un po’ di tutto: comunisti, socialisti, autonomi, repubblicani, monarchici, cattolici, indecisi. In gran parte sono renitenti al bando di reclutamento della Repubblica Sociale Italiana, cioè non vogliono combattere a fianco dei nazisti e dei fedelissimi di Mussolini. Hanno vent’anni, anche meno. Sono armati poco e male (siccome i comunisti sono tanti, gli Alleati qui lanciano armi malvolentieri). Il monte Tobbio, Capanne di Marcarolo, i piani di Praglia sono luoghi impervi, terre alte pochissimo popolate, qualche sparuta cascina, qualche contadino che ha resistito al richiamo della pianura. Quindi c’è poco cibo, giusto un po’ castagne, un po’ di zuppa, e c’è freddo anche ai primi di aprile. Cascina Benedicta, già monastero benedettino, poi proprietà degli Spinola ora in abbandono, è il loro quartier generale.
Nella notte tra il 5 e il 6 aprile i nazisti stringono la zona in un cappio. Come i denti del pettine risalgono il versante ligure e quello piemontese. Sono migliaia. Impiegano autoblindo e carri cingolati, il monoplano “cicogna” che dall’alto segnala i fuggiaschi. Hanno mortai, lanciafiamme, mitragliatrici, cani. E italiani: un reparto di bersaglieri da Bolzaneto e quattro compagnie della Guardia Nazionale Repubblicana. Ammazzano sul posto, oppure catturano intere formazioni partigiane.
La cappella annessa a cascina Benedicta diventa una prigione. Difficile immaginare come passa la notte tra il 6 e il 7 aprile. La paura, le preghiere, le bestemmie. All’alba del 7, venerdì santo, le porte della cappella si spalancano. I prigionieri vengono condotti nel bosco. Devono scavarsi la fossa. In uno slargo è montata la mitragliatrice, la manovrano i bersaglieri. Bersaglieri italiani. I condannati cadono a gruppi di cinque. Quando una fossa è piena, chi resta in piedi la ricopre e ne scava un’altra. Avanti così fino a 97 cadaveri. Fate i conti, pensate a come il tempo scorre, al modo atroce in cui la luce dell’alba che filtra tra i castagni si fa giorno, e poi forse mezzogiorno, non so dirlo. Magari la mitragliatrice qualche volta si inceppa. Forse bisogna ingrassarla. Fare una pausa. Una sigaretta. Un giro di caffè per scaldarsi nel freddo di una primavera che quassù è quasi inverno. Davvero non so dire come il 7 aprile di ottant’anni fa, a cascina Benedicta, sia arrivato il tramonto, e poi di nuovo notte. È un pensiero intollerabile.
Ma questa contabilità tutta è intollerabile, perché al conto del rastrellamento bisogna aggiungere i 14 di passo Mezzano, i 7 catturati tra Cravasco e piani di Praglia e assassinati a Isoverde, e poi altri 13, poi altri 5, poi altri 3, ovunque ci sia una radura, una pietra contro cui allineare i condannati, un palo da legargli le mani dietro la schiena. O impiccarli. Il numero ufficiale è 147 esecuzioni. Più i caduti in combattimento. Più i contadini vittima di rappresaglia. Più i prigionieri deportati a Gusen e Mauthausen e mai più tornati, e forse sono 400. Questo è un posto piccolo, cascinali, paesini, cittadine che sono in realtà paesoni. E quella era un’intera generazione.
E potrei raccontare altro, anche i dettagli, sale di ogni racconto. Le acque rosse del torrente Gorzente. Il corteo delle donne che salgono a ricomporre i corpi. Quel gesto di ripulirli. Potrei usare lo spazio che il giornale mi concede per raccontare e raccontare, che è poi il mestiere che ho scelto.
Ma oggi, a ottant’anni precisi da quello sciagurato venerdì, mi accorgo che mi interessa poco rievocare i fantasmi. Testimoni, va da sé, non ce n’è più, o pochissimi e centenari, e quindi oggi per me “Benedicta” diventa ufficialmente una faccenda nostra, che riguarda noi che siamo vivi qui e ora, e forse i nostri figli. E allora la domanda è: che vogliamo farcene di questa memoria?
Insegno a Ovada, nelle terre che alla Benedicta lasciarono la generazione che dicevo. In classe c’è sempre qualcuno che tira fuori un nonno, una zia, un lontano parente in qualche modo collegato alla strage. Qui è storia di famiglia, il modo in cui, dolorosamente, ogni microcomunità ha costruito un’identità da trasmettere ai nipoti. Ma se si esce dalla prospettiva ristretta, per decenni l’eccidio è stato vissuto come una grande sconfitta militare da parte delle forze partigiane. E forse questo è uno dei motivi per cui la memoria non è diventata davvero patrimonio condiviso, ma è rimasta confinata alle terre le cui famiglie hanno portato il peso della mattanza. A ottant’anni di distanza, la percezione dei fatti è però più nitida. Lo scrivo ancora una volta: il più grande massacro di partigiani della storia nazionale. E se è vero, come io credo, che l’Europa sia morta nel totalitarismo e risorta nel sacrificio della resistenza; se è così, e se da italiani e da europei avessimo qualche dubbio sulla direzione da prendere, è in queste terre alte che dobbiamo tornare, è a quel 7 aprile di ottant’anni fa che dobbiamo guardare.